garizzazione di Epifanìa, Bifània, Befània). È una figura molto amata dai piccoli, perché ne muove l’immaginazione e i desideri. È una “vecchiaccia” che, nonostante l’aspetto poco gradevole, è molto attesa: porta dolci ai bambini buoni, scivolando attraverso il camino. Ai tempi dei Romani non aveva ancora il naso aquilino e quel brutto neo, e i capelli bianchi sul capo. A dipingerla così fu la Chiesa cattolica durante il Medioevo che, per condannare il rito pagano, trasformò la dea che vola in una strega, dandole in mano una scopa, strumento magico. Molte filastrocche celebrano questa vecchia strega che cavalca il manico di una scopa di saggìna. Chi da bambino non ne ha imparato a memoria una, da recitare nel giorno della Befana? Le loro rime saltellanti, allegre e graziose, rimangono nella memoria anche nell’età adulta, a ricordo delle gioiose festività e quale tesoro da trasmettere ai figli.
LE FILASTROCCHE
Queste tipo di poesie ritmate e di canzoncine accompagnano l’arrivo della simpatica vecchina, e aggiungono nell’immaginario altri dettagli sulla sua, apparentemente trasandata figura (“La Befana vien di notte / con le scarpe tutte rotte, / con le toppe alla sottana. / Viva, viva la Befana...”). Sono composizioni giunte a noi per trasmissione orale, componimenti molte volte anonimi, caratterizzati da ripetizioni di sillabe e utilizzo di parole del folklore popolare, con versi dal ritmo rapido e cadenzato, impiegate negli asili, a scopo didattico (nel mondo anglosassone le filastrocche sono chiamate nursery rhymes, versi per asilo-nido). Anche poeti famosi ne hanno lasciato testimonianza: ad es. Giovanni Pascoli - “Viene, viene la Befana, / vien dai monti a notte fonda. / Com’è stanca! La circonda / neve, gelo e tramontana …” Ma, oltre che per la figura della vecchia Befana, anche per la ricorrenza religiosa dell’Epifania vi sono filastrocche e poesie di letterati e poeti. Citiamo: Lucrezia De’ Medici – Adoriamo il Messia, Gabriele D’Annunzio – I Re Magi, Boris Pasternak – La stella di Natale.
‘ER PUPO’ DELL’ARA COELI
A Roma, nella chiesa di S. Maria dell’Ara Coeli sull’arx del Colle del Campidoglio, nella tèca di un piccola cappella era esposta l’icòna in legno di un Santo Bambino, che la tradizione voleva essere stata modellata su un pezzo di albero di ulivo del Giardino del Getsèmani di Gerusalemme. Era costituita da una statuetta di 60 cm, avvolta in un tessuto dorato stretto come le fasce che avvolgono i neonati e venerata dai cittadini romani per guarigioni miracolose. Nell’Ottocento, il 6 Gennaio, l’immagine - chiamata confidenzialmente dalla popolazione ‘Er Pupo’ (il neonato) - era portata in una solenne processione per tutta la città e “benediceva” simbolicamente Roma. Nel 1994 fu rubata da ladri sacrileghi e senza fede, e mai più ritrovata. Da allora ne è esposta una copia, altrettanto venerata.
IL LINGUAGGIO
UNIVERSALE DELL’ARTEArte come attività nata dalla capacita di rappresentazione liberata dai condizionamenti di qualsiasi carattere istituzionale o pratico. L’intelligenza, il sentimento indipendenti si aprono all’intuizione che può nascere inaspettatamente dalla più banale occasione sensoriale o da una profonda esperienza emotiva. Tutti possono recepirla perché la sua elaborazione, frutto immediato o prolungato nel tempo coinvolge l’artefice, sia esso poeta pittore od altro; sia il fruitore, che a sua volta ne coglie il messaggio, lo trasforma interpretandolo a suo modo. Nasce così uno scambio comunicativo che fa di noi una umanità che parla. Gli artisti qui presentati hanno suggerito al raziocinio dell’amante dei numeri il collegamento con il sottostante intreccio: “L’essere e il divenire dei frattali”; al poeta un aspetto della sua interiorità che si fa espressiva visivamente e concettualmente, ma anche uno o più messaggi al semplice e appassionato fruitore che vede, scopre e si commuove o anche si ribella. Così il rapporto si allarga per comunicarci l’essenza di quanto avviene dentro di noi attraverso le esperienza estetica.
Burri, Pollock questa volta sono i due grandi protagonisti della metà del XX secolo, gli interlocutori più vicini del nostro recentissimo passato o, viceversa, non compresi vengono visti come i dissacratori che provocatoriamente disturbano le nostre rassicuranti concezioni di armonia e bellezza.
Domenica 12 gennaio
ARTE CONTEMPORANEA
con Vincenzo Scozzarella
BURRI
«Per me parlano le mie opere»
Alberto BURRI (Città di Castello, 1915 – Nizza, 1995)
Consacrato dalla critica sostenuta dal mercato come il pittore del secolo non ama parlare di sé ed essere inquadrato in una determinata corrente. Si ritiene un pittore contemporaneo classico perché arte e classicità non sono un binomio indissolubili. Solo nel 1994 all’amico Stefano Zorzi concede una serie di interviste. Si scopre così «la profonda umanità di un uomo la cui esistenza è stata un susseguirsi di incontri, successi, esperienze, ma anche osservazioni acute sui critici e sulla pittura come se fosse il più accademico dei pittori e il più retrogrado fra i conservatori». «La nostra stabilità è solo equilibrio e la nostra sapienza sta nel controllo magistrale dell’imprevisto». Con questa citazione di Robert Bridge, Burri ne coglie l’analogia con la propria arte: «Questa frase mi colpisce perché è l’essenza del mio modo di fare pittura. E pur essendo una definizione fatta da uno scienziato per parlare di scienza, è adattabilissima al mondo della pittura […]» Burri è un artista insolito nel panorama artistico delle post-avanguardie. Insolito soprattutto per l’esperienze di vita vissuta che lo hanno messo in contatto con ambienti particolari dai quali ha saputo cogliere elementi tutti personali di coinvolgimento spaziale, materico ed emotivo sostenuti da un’idea di equilibro ‘classico’che l’origine stessa della sua cultura hanno impresso alle sue scelte compositive. Si arruola volontario nella guerra in Africa, terra di per se stessa nuova, grandiosa di spazi silenziosi e aridi. Una guerra, che come tutte le guerre pongono davanti agli occhi la sua realtà fatta di violenza dell’uomo sull’uomo e della forza micidiale e devastante che può fondere o trasformare in schegge e detriti materie apparentemente indistruttibili. Ma, egli è anche medico e sotto agli occhi, sangue e lacerazioni; un’umanità ferita nel corpo e nell’anima. È durante la forzata inattività della prigionia in Texas con le dure regole e privazioni che ha trovato quello spazio esistenziale alla meditazione e la conseguente elaborazione di tutto il vissuto precedente per farsi testimone del dolore, del pathos umano che poteva essere descritto con quella stessa materia distrutta e distruttrice al fine di poterla ricomporre ad esemplare della coesistenza del caos e dell’ordine cosmologico. Vecchi sacchi di iuta rattoppati e sporchi, pezzi di legno consunto, ferri arrugginiti, lamiere, pietrisco macinato sono il materiale utilizzato nelle prime sperimentazioni. Dalla decomposizione delle loro forme originarie nascerà l’intuizione di un estetica tutta umana di equilibrio che l’arte può aiutare a rendere accessibile alla comprensione di una realtà universale e della sua ‘necessità’cosmologica. Le opere di Burri si possono guardare come «puri processi naturali della materia» dice Emanuela Pulvirenti, ma io penso che siano soprattutto ricerche di segni ricostruttivi della propria memoria che contraddicono tutte le teorie sulla ‘morte dell’arte’dopo gli orrori dell’ultima guerra.
G.B.
POLLOCK
e l’algebra dei frattali
di Sergio Bedeschi
«L’inconscio è un elemento molto importante dell’arte moderna e penso che le pulsioni dell’inconscio abbiano grande significato per chi guarda un quadro». (J.Pollock)
Recentemente il professor Vincenzo Scozzarella, in uno dei suoi interventi sull’arte moderna, ha tenuto una splendida chiacchierata sul pittore statunitense Jackson Pollock. Ciò che più piace in queste conversazioni è, da parte del relatore, la grande semplicità del linguaggio e l’ampia disponibilità rispetto alle diverse possibili interpretazioni che l’arte moderna, per sua stessa natura, sembra sempre consigliare. Con Jackson Pollock poi questa disponibilità appare più che mai indispensabile, dato il singolare astrattismo e, in definitiva, l’unicità della sua produzione. Va detto invero che la parola “astrattismo” non è il termine più esatto in considerazione del fatto che le sue tele, così esuberanti per dimensioni, venivano realizzate col metodo dello “sgocciolamento”, facendo se mai rientrare il tutto nell’ambito della così detta “Action painting”.
L’UNICITÀ DEL GENIO
Un caposcuola dunque? Difficile dirlo quando si tratta di una modalità tanto originale. Una modalità che, in genere, non ammette discepoli o imitatori. Così come probabilmente fu con la pittura metafisica di De Chirico o con i cieli stellati di Van Gogh o con la frutta e verdura di Arcimboldo o, se si vuole, con le stranezze di Dalì. Singolari, unici, eccentrici, inimitabili appunto. Ed è forse per questa ragione che in queste curiose manifestazioni della tecnica pittorica, della fantasia e dello spirito, ciascuno di noi può cercare e trovare tutto ciò che vuole: intimità, spontaneità, immediatezza, liricità, ma anche (eccoli là i soliti detrattori) soltanto scarabocchi, manovre a casaccio, assenza di qualsiasi valore estetico. Ebbene, strano che possa sembrare, anche i matematici hanno voluto dire la loro su Pollock. Qualcuno al Simposio di quel giorno (indovinate chi è?) è intervenuto con tale osservazione, trovando, neanche a dirlo, il relatore del tutto consapevole e preparato su questi particolari. Così, non senza stupore tra i presenti, ecco che emerge qualcosa di inatteso e al contempo affascinante. Il riferimento va agli anni ’40, quelli nei quali Pollock ha dato il meglio di sé. È proprio in quegli anni infatti che nel mondo della Scienza va maturando una nuova matematica, l’Algebra dei Frattali, attenta ad indagare nel mondo della Natura, come mai era accaduto prima. Anche se sarà solo negli anni ’60, e più precisamente negli anni ’70 con l’ausilio dei computer, che andrà ufficializzandosi questa nuova disciplina per opera di colui che va considerato il vero padre fondatore.
BENOIT MANDELBROT
Ci riferiamo a Benoit Mandelbrot, ebreo polacco poi naturalizzato francese, nato nel 1924 e scomparso assai di recente nel 2010. L’avventura di Mandelbrot comincia quando egli, giovanissimo, comincia col chiedersi cosa potevano avere in comune oggetti tanto diversi come le spugne, la polvere, i fiocchi di neve, i fiordi norvegesi o le foglie di felce. Ebbene, affrontando il problema con la volontà di cogliere ciò che di regolare poteva trovarsi nascosto nelle irregolarità e cioè nel caos con cui apparentemente si manifesta la Natura, Mandelbrot finì col pensare a una Matematica che fosse in grado di interpretare formalmente l’essere e il divenire della realtà: i Frattali, appunto. Vale a dire strutture geometriche “auto simili” che si sviluppano con continuità su scale sempre più piccole.
BROCCOLI, CHE BELLEZZA!
Guardare i broccoli o i rami degli alberi, tanto per convincersene subito facilmente. Sembravano azzardate ipotesi, ma presto divennero verificabili e profetiche di tante recenti scoperte o realizzazioni, come una rete di telefoni cellulari o l’evolversi dei sistemi finanziari. Che poi qualcuno dovesse trovare che le “trance” artistiche che portavano Pollock a creare quelle immagini reiterate, e in qualche modo consequenziali l’una con l’altra, possano avere una loro “autocoscienza matematica”, questa è questione che ancora oggi si dibatte tra il mondo dell’Arte, quello della Scienza e quello della Filosofia (qualcuno parla anche di Neuroscienza). Inutile dire come, da tale dibattito tenuto in quella riunione, qualcuno vada già pensando di proporsi per qualche futuro Simposio, vuoi sullo stesso Pollock o vuoi sui suggestivi temi dell’Algebra dei Frattali.
«La geometria dei frattali è una scoperta piuttosto che un prodotto della mente umana » (R.Penrose).
Ecco perché un dripping di Pollock al pari di uno scarabocchio nato dalla gestualità inconscia può evidenziare la cellula compositiva generatrice nel suo auto riprodursi spontaneo come in tutto ciò che avviene in natura. L’artista, anticipatore di una teoria? Com’è possibile regolare il flusso istintuale che muove la sua mano spontaneamente per accompagnare il suo ritmo interiore, intimo e poetico. È lo scienziato che osserva e analizza supportato da strumenti e teorie matematiche che scopre i meccanismi sottostanti il movimento della vita che ci circonda: l’essere in movimento come afferma Sergio Bedeschi appassionato di matematica e contrario a qualsiasi interpretazione metafisica.