Lo scrittore-giornalista Domenico Defelice ha voluto dedicare una fiaba che tratta l’abbandono e la violenza verso i minori più deboli
Natale è la festa dei bambini per eccellenza
Dopo gli spettacoli, portati in quasi tutte le città del territorio, il Grande Circo era tornato alla base, una bella tenuta che si stendeva per numerosi ettari tra collinette coperte di ulivi e una vallata punteggiata di pioppi, betulle, piante di bosco e sottobosco e un groviglio di canne lungo il rigagnolo che scorreva nella parte più bassa e che, nel mezzo, formava un laghetto, un piccolo occhio azzurro verdastro, regno di libellule e rane. Tra i prati verdi e le ombre degli alberi, i tre elefanti, i cinque cani e le due capre - unici animali del circo -, assolto il giornaliero allenamento, scorrazzavano godendosi il meritato riposo assieme a due mucche, un cavallo, una gran varietà di pollame e il canto melodioso degli uccelli.
Era sul finire di giugno e il tour degli spettacoli sarebbe ripreso nuovamente a fine settembre; allora, gli animali sarebbero rientrati nelle loro gabbie per visitare paesi e città, allietando adulti e bambini insieme ad attori, trapezisti, saltimbanchi, ginnasti e buffoni.
Nel Grande Circo, il ruolo degli animali era assai marginale. La sua calamita, il numero uno, era Fortunella delle Rose o Delle Rose Fortunella - l’incantatrice, la maliarda, la regina, la fata, come, di volta in volta, era chiamata -, una bionda ragazza snella e aggraziata, veramente bella come la Venere di Botticelli. Bastava la sua sola presenza in pista perché il pubblico fosse ammaliato: gli uomini, dal suo aspetto solare e dal suo sorriso incendiario; tutti, dalle sue movenze leggere e ancor più dalla sua voce limpida, priva d’ogni inflessione dialettale. Si poteva rimanere per ore ad ascoltarla, senza stancarsi, raccontare storie e storie, a volte tratte da opere famose, più spesso da lei stessa inventate. Sulla sua bocca, tutto diveniva alta tragedia o commedia esilarante; il pubblico era sempre teso; dette da lei, le false notizie o le baggianate divenivano verità indiscusse più del Vangelo. Però, se invece di Fortunella delle Rose, era chiamata Delle Rose Fortunella, la sua verve tendeva lentamente a spegnersi, il tono di voce si abbassava, come in uno di quei vecchi grammofoni quando subivano un calo di corrente. Appena un istante, è vero, ma succedeva e, allora, lasciava grandi e piccini sconcertati.
Tra i numeri eseguiti dagli elefanti, quello che piaceva maggiormente ai bambini - che si alzavano a incitarli come tifosi in uno stadio - era il caracollare goffamente per cinque giri lungo il perimetro dell’arena, in una specie di esilarante gara a chi giungesse per primo a raccogliere le carezze del domatore e, tutti, un’abbondante scorpacciata di frutta. A vincere, era sempre l’elefantessa Sonia Comparsita o Comparsita Sonia, per il suo andamento leggero e quasi danzante, pur avendo una stazza considerevole. Qualche volta arrivava prima Veronella Schiaccianoci o Schiaccianoci Veronella, così battezzata perché, una settimana dopo la nascita, era entrata nel magazzino e con le sue zampe da martello pneumatico aveva ridotto in poltiglie ben tre sacchetti di noci. Era sempre allegra e torceva continuamente la proboscide, anch’essa, come la madre, mimando passi di danza ed emettendo leggeri barriti. Chi mai aveva vinto era l’elefante maschio, Mamaut Picchiput, non perché non ne avesse le capacità, ma perché faceva sempre il cavaliere, e, una volta in testa, rallentava, a volte si fermava del tutto per farsi superare; o meglio, vinse una sola volta perché lo chiamarono Picchiput Mamaut, cioè, rovesciando il suo nome e cognome. Quando il direttore e impresario andò ad acquistarlo, ancora cucciolo, direttamente nella savana, sentì dal cacciatore africano parole dal simile tono, ripetute più volte; egli non conosceva la lingua locale, ma quel verso gli piacque a tal punto che l’appioppò all’ elefantino. Mamaut Picchiput o Picchiput Mamaut aveva qualche anno meno di Sonia Comparsita o Comparsita Sonia, e quasi la sua stessa stazza. Non s’innervosiva mai; però, se lo chiamavano Picchiput Mamaut, lanciava un lungo e sonoro barrito, come dicesse mi avete scocciato, e correva, correva all’ impazzata, neanche fosse una Ferrari, devastando ogni cosa al suo passaggio.
Anche cani e capre avevano diversi repertori.
I cani ne eseguivano uno in particolare: si schieravano in fila tutti e cinque al centro dell’arena e sulla groppa del primo - un canone dalla faccia rugosa e piena di ghigni -, Bulldog o Dogbull, l’istruttore poneva in bilico una leggera tavoletta, sulla quale, da un vicino trampolino, vi saltava il secondo, Husky il Bello o Bello Husky, un siberiano dagli occhi azzurri e puntuti come zampilli; sulla sua schiena, altra tavoletta, sulla quale volava il terzo cane, Chow Chow o Chow Chow, che sembrava un morbido peluche giallo spruzzato di marrone chiaro, musetto nero e occhietti pure neri quasi fossero due piccoli bottoni; sul terzo, altra tavoletta sulla quale si fiondava Barboncino o Cino Barbon, tutto nero come la pece e su di esso, infine, il quinto, la cagnetta Shih Tzu, o Tzu Shih, minuta, dal lungo pelo venato di giallo antico, occhi e baffi all’ingiù da ispirare tristezza. Shih Tzu o Tzu Shih, una volta planata sulla tavoletta, si ergeva su due zampe e, sul suo muso, l’ allenatore poneva un’assicella di legno, sulla quale andava avanti e indietro, più e più volte, un piccolo e grazioso scoiattolo. Era il momento più emozionante, perché lo scoiattolo sembrava sul punto di precipitare, ora a destra, ora a sinistra. I piccoli si alzavano tesi, a far la ola con il cuore in bocca - oh! oooooh! - e l’allenatore, per accrescere la tensione, ondulava il corpo e a braccia aperte mimava pure lui la scena. Si chiamava Filodendro o Dendrofilo e non si era mai visto un uomo così lungo e allampanato. Aveva i baffetti all’Umberto, capelli rossi alla moicana e alle orecchie due grossi pendagli inca, ricordo della sorella morta di brutta malattia, la quale non se li toglieva neppure quando faceva il bagno e tantomeno quando dormiva.
Il repertorio delle due capre era, in assoluto, il più elementare (d’altronde, da loro, non si poteva pretendere troppo; Vittorio Sgarbi, quando vuol sbertucciare una persona, che cosa le urla in televisione? Capra! Capra! Capra!). L’allenatore, Bombarda Charleston o Charleston Bombarda, suonava marcette sconclusionate col suo flicorno baritono, o bombardino, e le due bestiole gli andavano dietro cercando di seguire il ritmo con il loro bee -bee -bèbee -bè-bebee!, suscitando risate. Quando lo chiamavano Charleston Bombarda il suono diveniva stridulo, ancora più strampalato e le caprette, perplesse, si azzittivano e ciò dimostrava che non fossero, poi, così stupide.
Tutti gli spettacoli, tranne quello delle capre, erano accompagnati da allegri sottofondi musicali dovuti al geniale Pompeo Assiolo, suonatore di trombone, e agli altri suoi collaboratori - tra cui anche Bombarda Charleston o Charleston Bombarda -, specializzati in chitarra, flauto, tamburino e in tanti altri strumenti. Guai, però, a chiamarlo Assiolo Pompeo: allora i sottofondi divenivano babelici e l’unico suono percepibile con chiarezza era un continuo e monotono chiù.
Quel primo luglio, vicino a un carrozzone tra l’erba verde e sotto un enorme pioppo dal fogliame ciangottante alla leggera brezza mattutina, intorno all’elefantessa Sonia Comparsita o Comparsita Sonia, stavano tutti in trepidazione. C’era la bellissima trapezista, così brava da eseguire fino a un quarto salto mortale. C’era il clown dalla faccia pulita, non ancora infarinata per il giornaliero allenamento. C’era Dick Dick o Dick Dick, il cane poliziotto o da pagliaio, guardiano della tenuta, attentissimo e severo, che dormiva dalle quattro del pomeriggio fino a sera e, poi, sempre in perlustrazione da un capo all’altro della tenuta (detto fra noi, Dick Dick o Dick Dick e Chow Chow o Chow Chow erano gli unici a non sentirsi turbati o infastiditi se rovesciavano i loro nomi e cognomi!). Appoggiati a una staccionata, stavano quattro bambini, figli di lavoranti, pure loro in apprensione. E poi, ancora, Fortunella delle Rose o Delle Rose Fortunella, Filodendro o Dendrofilo, Bombarda Charleston o Charleston Bombarda, Pompeo Assiolo o Assiolo Pompeo; né mancava il direttore impresario, Peronetto Napoleone o Napoleone Peronetto - come lui preferiva essere chiamato - figura insignificante a vederlo, sì che nessuno gli avrebbe attribuito, non diciamo quella carica, ma neppure la più elementare e umile delle incombenze, come il togliere gli escrementi dalle stalle degli animali. Basso, secco, un’ aringa affumicata, stempiato, una vocina da bambino e un paio di baffi alla Clark Gable. Ma, a detta del personale e degli inservienti, uomo veramente degno per essere il direttore; un padre per tutti, addirittura, un valido impresario, capace di risolvere - come aveva più volte risolto - gli enormi problemi che impegnano quotidianamente una grande e complessa struttura. E c’era, naturalmente, il domatore, Maestro Pennacchio o Pennacchio Maestro, che le carezzava la fronte, le orecchie e la proboscide, e, infine, il veterinario, il medico degli animali, che doveva assistere la partoriente, Emerito Pantegana o Pantegana Emerito, dal volto puntuto, occhietti, naso, baffi e bocca da topo - e i topi, agli elefanti, si dice, mettono paura! -, lunghi capelli neri dalla netta scriminatura che partiva dal centro della fronte e una vocetta stridula. Non faceva che girare intorno all’elefantessa, agitando un piccolissimo frustino scaramantico a nove code di nastrini colorati e recitando una formula propiziatoria, che doveva essere composta d’almeno due endecasillabi e con la rima. Nato tra Torino e Milano, si era da poco trasferito in quella città e di formule magiche alla bisogna era proprio digiuno. Così, sebbene non se ne intendesse di poesia, era stato il direttore in persona, Peronetto Napoleone o Napoleone Peronetto a suggerirgliene una: “Premi, ti prego, o Sonia Comparsita/e dacci finalmente un’altra vita”. Senonché, Emerito Pantegana o Pantegana Emerito se l’era del tutto scordata e, là per là, fu costretto ad inventarsene un’altra, un disastro: “Spingi, spingi, dannata Comparsita Sonia/e al diavo