di molte pagine? Per questa ragione molto spesso rinunciamo a leggere un libro importante senza pensare che la vicenda narrata è soprattutto un pretesto per poter documentare una società, un momento storico attraverso situazioni diverse. Tutto ciò impossibile da rendere sullo schermo nella sua completezza. Nel caso di Tolstoj, il suo racconto, fatto con semplicità, contiene tutta la problematicità dei fatti umani, siano essi di carattere sociologico, giuridico, antropologico ecc. coinvolgendo sapientemente il lettore, curioso del ‘poi cosa succederà’.
È così che ci si trova immersi a nostra insaputa nel mondo contingente dell’accadimento di un’epoca storica, e del fatto quotidiano dei protagonisti che solo apparentemente muovono tutto l’intreccio elaborato, invece dal loro essere, quello più intimo e nascosto agli occhi altrui, dinamico fino al parossismo.
Di quell’io che riflette un caleidoscopio di pensieri rivelanti la natura di ognuno, un pensiero in movimento instabile tra ipocrisie mondane, ma anche di dubbi esistenziali, altalenanti a loro volta. Accanto a loro, c’è la staticità del mondo dei servi che non si chiede nulla, ma sa muoversi con scaltrezza e innata sottomissione: un’accettazione indiscussa quasi religiosa, simbolicamente compendiata nella figura dello zar. Due realtà messe a confronto nelle relazioni reciproche tra gli individui che interagiscono.
Tolstoj è uno scrittore realista, e ne evidenzia con sottile analisi lo status di ognuna: quella appartenente alla nobiltà aristocratica, dame di corte, ufficiali di carriera o pluridecorati e ricchi possidenti, che vivono la maggior parte dell’anno in città: Pietroburgo o Mosca, tra avvenimenti mondani e incombenze burocratiche, la realtà contrapposta, ma indispensabile al funzionamento del ‘sistema’, è la moltitudine di servi. In questo modo, noi, senza accorgersi, impariamo a conoscere quella società che pulsa di tante passioni e debolezze, di accettazioni e di miserie.
Scopriamo la Russia del XIX secolo, un paese che fra qualche decennio sarà sconvolto dalla Rivoluzione bolscevica.
Difficile trovare un’altra possibilità così appassionante per studiare la storia dell’uomo. I questo caso, soprattutto di una donna travolta in una forte passione che non vuole sottomettersi alle regole imposte dalla società che la esclude emarginandola in una solitudine compromessa da stati d’animo sempre più opprimenti e ossessivi.
La sua fine? Non tutti la conoscono. Bisogna scoprila.
G.B.
OSSERVATORIO LINGUISTICO
Rubrica aperta ai contributi di tutti gli interessati
Traduzione: fra fedeltà e “tradimento”
di Giancarlo Marchesini
Traduttore traditore! Così suona il vecchio adagio. Ma questo luogo comune costituisce anche una prova “a contrario” di quanto questo tradimento sia necessario: il fatto stesso che il traduttore venga accusato di infedeltà implica che, al di fuori di contesti puramente tecnici, la traduzione letterale non dà i risultati sperati, e che il traduttore è costretto a “dire la sua” nello svolgimento del proprio lavoro. Perché?
I campi semantici
Le lingue scelgono le proprie derivazioni e l’estensione dei propri significati in totale autonomia. La parola inglese eventually non significa eventualmente ma “infine”. L’italiano vede il fenomeno come transeunte (passibile di cambiamento), l’inglese come fatto compiuto, un evento. Allo stesso modo il tedesco grazil non vuol dire gracile ma snello, leggero, etereo. Entrambi i termini (inglese e tedesco) derivano dal latino ma ci accorgiamo che i loro “corrispettivi letterali” in realtà non corrispondono assolutamente al significato che lo stesso etimo ha prodotto in italiano.
Oltre le parole
Qualsiasi buon dizionario ci darebbe queste informazioni, quindi le traduzioni grazil = snello e eventually = infine sono in realtà letterali e giustificate. Ma, al di là delle singole parole, la traduzione va oltre il significato del dizionario, deve “produrre senso” in un modo conforme all’aspettativa naturale del lettore. Nelle offerte di lavoro pubblicate in francese si trova in modo ricorrente il termine exigences, cioè quello che il datore di lavoro richiede al futuro dipendente in termini di diplomi, capacità, esperienza. La traduzione letterale “esigenze” andrebbe contro l’aspettativa naturale di un lettore italiano che cerca impiego in Francia, crea confusione (in linguistica si parla di “rumore”).
Nel contesto degli annunci di lavoro la parola exigences va tradotta con competenze/qualifiche. Il francese guarda alle competenze dal punto di vista del datore di lavoro (richiede, esige), l’italiano dal punto di vista del lavoratore (propone le sue competenze e presenta il proprio curriculum).
Idee e equivalenza
Questo esempio basta a farci comprendere che il compito del traduttore è trasmettere idee e non parole. Per arrivare a questo risultato dobbiamo abbandonare la nozione di identità e adottare quella di equivalenza. È però evidente che questo passaggio può essere insidioso (“traduttore traditore”). Se abbandoniamo la certezza (starei per dire matematica) delle soluzioni dei dizionari, se affermiamo che il traduttore è libero di ricercare la propria equivalenza ci addentriamo su un terreno minato in cui sono possibili errori, abbagli ed abusi. Per restare ad uno degli esempi citati, quando traducendo il tedesco grazil, dovremo usare snello? E quando leggero? E quando etereo?
Fedeltà (???)
Ma cos’è allora la fedeltà della traduzione? Fedeltà nella forma o nei contenuti? In traduzione l’unica fedeltà perseguibile è quella alle intenzioni dell’autore, anche se questa presa di posizione può implicare stravolgimenti del testo. Se stessimo traducendo “dacci oggi il nostro pane quotidiano” per un pubblico orientale, dovremo forse dire “dacci oggi il nostro riso quotidiano”? L’intenzione dell’autore sarebbe salvaguardata e lo stravolgimento formale mirerebbe proprio a mantenerla inalterata. Ma con questa soluzione prestiamo il fianco a critiche ed accuse di soggettivismo.
L’equivalenza, una nozione sfuggente
Gli studiosi di traduttologia hanno definito l’equivalenza in moltissimi modi: funzionale, stilistica, formale, testuale, comunicativa, linguistica, pragmatica, semantica, dinamica e, perfino, ontologica. L’equivalenza è il tentativo di risvegliare nella mente del lettore la temperie culturale e stilistica del testo di partenza e trasmettere i contenuti in una forma appropriata all’originale ma comprensibile nella versione tradotta. Siamo molto al di là della traduzione “parola per parola” perché traduciamo idee e non, appunto, singole parole. Ben venga allora l’accusa “traduttore traditore” se ci garantisce una trasmissione fedele del testo in lingua straniera!
(continua)
La lunga strada dell’emancipazione femminile
attraverso le due guerre mondiali del ‘900 / 2ª parte
di Francesco Bonanni
Progressisti antifemministi
Contro tutti i pregiudizi antifemminili, quali quelli di Filippo Turati, che giudicò le donne non ancora pronte ad assolvere a compiti tradizionalmente svolti da uomini, o di Leonida Bissolati, che addirittura definì la donna “fenomeno di incoscienza civile”, il contributo allo sforzo bellico nel primo conflitto mondiale risultò prezioso per il successo dei Paesi vincitori, Italia compresa. Giudizi espressi da uomini che nel panorama politico italiano venivano considerati a ragione progressisti; ma il loro progressismo si esplicava unicamente nel campo sindacale e sociale. L’occupazione femminile in Italia prima dell’inizio delle ostilità era diminuita dal 48% del 1861 al 28% del 1911 e ciò a causa delle leggi a tutela del lavoro femminile, volute dai Socialisti, approvate nel 1902 ed andate in regime nel 1907. Solo con l’entrata in guerra dell’Italia si ebbe un cambiamento di tendenza.
Nascono Leghe e Associazioni femminili
Anzi la guerra diede l’occasione alle donne di poter esprimere un’ adesione anche morale.
Si costituì la Lega Patriottica Femminile alla quale aderì Teresa Labriola, figlia del filosofo Antonio. Fu la prima donna a laurearsi in Giurisprudenza all’Università di Roma ove conseguì anche la Libera Docenza.
Non poche furono le adesioni all’Interventismo femminile che furono motivate da diversi ragioni: dal puro spirito patriottico all’affermazione dei diritti delle donne.
Ci fu anche la partecipazione di Margherita Sarfatti.
In Italia negli anni ottanta dell’Ottocento era presente una rete numerosa di Associazioni di donne per la rivendicazione dei loro diritti civili e politici che con lo scoppio del conflitto si trasformò in una Rete di Comitati Civici di supporto alla guerra. Addirittura già nella fase della nostra neutralità si costituì il Comitato Nazionale delle Donne Italiane che, unitamente a gruppi appartenenti a Circoli Culturali, cominciò a passare delle schede tra le socie per chiedere la loro disponibilità a mobilitarsi in caso di guerra in alcune attività tra cui quelle infermieristiche.
L’autorità maschile entra in crisi
Ebbene tale partecipazione causò non pochi disagi psicologici al mondo maschile. Addirittura gli uomini al fronte, oltre al resto, sentirono una sorta di emarginazione dal proprio mondo, associato ad un sentimento di frustrazione. Sentimento che trapelava anche dalle loro lettere, nelle quali si lamentavano di sentirsi trascurati dalle loro mogli: “lo so, adesso che fate tutto voi altre e niente noi uomini, non avete tempo da perdere in tanti scritti”. Ma nell’iconografia ufficiale del tempo alla donne venivano ancora unicamente attribuiti i ruoli più tradizionali: l’Infermiera e la Dama di carità. Poi le Postine, in quanto indossavano un’uniforme, suscitarono spesso delle reazioni ostili fino ad essere, in taluni casi, addirittura oggetto di aggressioni verbali. Era inconcepibile che una donna indossasse una uniforme; indumento all’epoca ritenuto di esclusiva pertinenza maschile. Nella mentalità dell’epoca le uniche uniformi pienamente accettate erano quelle delle Monache e quelle delle Infermiere.