Una nuova puntata tratta dal libro “Pomezia Origini Genti e Personaggi” scritto dal professor Antonio Sessa
Non vi era solo malaria nel nostro territorio
Dal libro “Pomezia Origini Genti e Personaggi” scritto dal prof. Antonio Sessa edito dalla Angelo Capriotti Editore nel 1990
Non vi era solo malaria (pag.10 - pag.11)
Rimane difficile immaginare ora, assediati dalla lunga teoria di palazzoni sulla litoranea e dai tanti capannoni, case e strade all’interno, quello che era questo territorio all’inizio del secolo e anche per tanti anni dopo.
Due erano i nuclei abitati: i borghi di Pratica e di Ardea; nella campagna pochi casali sparsi, circondati da baracche di frasche e paglia.
In un ambiente dove la natura risultava predominante, gli sparuti abitanti e le migliaia di bestie vivevano, con essa, in perfetta simbiosi.
Nei due esigui borghi e nei radi casali la popolazione stabile era ben lontana dalle mille unità.
I terreni erano di proprietà di grandi famiglie.
Il commercio era quasi inesistente: le dispense di campagna, poche osterie e qualche ambulante bastavano a soddisfare le magre esigenze dei locali. Le uniche attività erano l’agricoltura e l’allevamento, svolti per lo più in inverno.
In estate la malaria svuotava purtroppo le campagne. Con la totalità dei terreni in mano a poche, grandi famiglie tutti, direttamente o indirettamente, lavoravano al servizio dei latifondisti. I più fortunati lavoravano stabilmente al servizio dei padroni o dei loro fattori di campagna; gli altri venivano ingaggiati dai caporali, di volta in volta.
Eppure nel racconto dei vecchi non c’è solo lo spettro della malaria e di una antica miseria; lo sguardo va a ricordare e a cercare quello spettacolo di natura selvaggia e incontaminata.
La sughereta a Pomezia, tratti della riserva di Castel Porziano e qualche altra oasi sono gli ultimi segnali di un paesaggio antico. Il territorio, dalle caratteristiche tipiche della macchia mediterranea, era quasi tutto adibito a pascolo.
Nell’interno vi erano soprattutto boschi con radure a prato.
Sotto bellissimi alberi di querce (lecci, cerri, sugheri), di alloro, olmi, frassini vi era tutta una vegetazione a tratti impenetrabile. Fra ginestre e rovi crescevano le more, le nespole e le bacche. Nelle radure, animali a pascolo venivano guardati da sonnolenti vaccari, mentre il sottobosco era regno incontrastato di cinghiali, tassi, ricci, volpi, porcospini. Nel cielo volteggiavano merli, tordi, colombacci, uccelli predatori.
Più giù incominciavano gli acquitrini e le grandi lagune; qui nidificava l’airone cenerino che dette il nome ad Ardea, che in greco vuol dire Airone.
Il martin pescatore nidificava in grande quantità sotto Campo Selva e dette il suo nome a questa zona di Torvajanica. Nell’acquitrino la lontra adocchiava migliaia di capi di bestiame a pascolo, allo stato brado.
Con l’avvicinarsi al mare ecco i tomboleti e all’improvviso, fra queste dune ricoperte da arbusti, apparivano le sagome delle due torri di Torvajanica e di Tor San Lorenzo.
“Si attaccavano le vacche al carro e da Pratica si andava al mare - ricorda Silvio Bello - si passava per una carrareccia, da Campo Selva e da qui si arrivava alla Torre del Vajanico. Lungo la strada si incontravano solo cavalli, vacche e bufale al pascolo; e, di tanto in tanto, qualche vaccaro a cavallo. La spiaggia era piena di telline; al riparo dei cespugli, dalle dune si guardava il mare limpidissimo. In quei primi anni del secolo non vi era nessuno.
Qua e là si intravedeva un capanno di frasche di cacciatori.
Quando vi era vento il salmastro impregnava i cespugli. Al ritorno noi più piccoli cercavamo nelle buche le tarantole, grossi ragni dal morso velenoso.
Le tarantole si insediavano nei prati dove il terreno non si lavorava mai.
Qui formavano la casa, facendo il velo sopra la buca. Tanti bambini come me mettevano una pagliuca bagnata con la propria saliva, dentro la buca: la tarantola veniva sù e noi subito, con un sasso, la colpivamo a morte.
Tante volte la tarantola non veniva sù e qualche ragazzo bagnava di nuovo la pagliuca per infilarla nella buca; ma intanto il veleno della tarantola aveva già impregnato la pagliuca e per questo più di uno stette molto male.
Nella pietraia, intanto, si vedevano strisciare serpenti; soprattutto in primavera se ne vedevano tanti fra le pietre che, accoppiati, facevano l’amore. Sempre scendendo per la carrareccia di Campo Selva con il calesse, ancora negli anni trenta, raggiungevo Anzio, viaggiando quasi sempre sul bagnasciuga. Intanto fra i tomboleti, nelle lagune d’acqua e nelle macchie non lontane, migliaia di vacche e bufali pascolavano tranquilli, mentre da lontano si vedevano correre mandrie di bellissimi cavalli.
Il cavallo e le ruote del calesse mi spruzzavano addosso l’acqua del mare, limpida e chiara, che emanava un profumo di salsedine. Lo sguardo andava intorno, entusiasta di quello spettacolo”.