Avvenne poi che per l’agricoltura e per l’urbanizzazione vaste aree boschive divenissero profàne (sfruttate cioè per cacciare animali, per raccogliere legna, per abbattere alberi al fine di coltivare la terra) e il carattere sacro rimase solo ad alcune parti di esse.
I Romani antichi utilizzavano per la parte rimasta sacra del bosco i nomi latini di lucus (a indicare una radura nel bosco, consacrata dal taglio degli alberi intorno, ove arrivava la luce del Sole) e nemus (a indicare l’insieme degli alberi sacri che racchiudevano tale radura).
Chiamavano invece la parte priva di valore sacrale silva (la selva, foresta incolta, fitta e priva di ingressi). Nel bosco sacro, con solennità e con offerte essi chiedevano al Genio o Nume del luogo (Genius loci) il permesso di cacciare, di tagliare la legna.
EDICOLE, ARE, TEMPLI
Nel tempo, la sacralità uscì dal bosco e si estese simbolicamente anche in piccole aree consacrate, quali le edicole a tempietto (ad arco acuto o tondo, sostenute da colonne), a contenere l’immagine di divinità minori. Si trovavano in campagna, agli incroci o ai bivi delle strade, ma anche nei paesi e nelle città (l’usanza fu ripresa dal Cristianesimo con le c.d. madonnelle).
Dopo il lucus e l’edicola votiva, la devozione vide il nascere dell’area sacra, un’area più vasta in genere recintata e con un’ara di pietra, su cui spesso poggiava una statua. Infine, l’ultima evoluzione del luogo sacro si ebbe con il tempio, edificio di culto di origine etrusca e greca, adottato dai Romani.
I templi, pur nascendo in epoche successive, non eliminarono tuttavia i luoghi di culto più arcaici. Boschi sacri continuarono infatti ad essere conservati e curati, con la sostituzione puntuale di ogni albero caduto. I
l taglio degli alberi era limitato all’indispensabile per la cura della pianta e veniva effettuato cerimoniosamente dai sacerdoti.
I profani non potevano accedere al bosco se non in occasione di feste pubbliche ritualizzate con sacrifici, benedizioni e processioni, nel corso delle quali si poteva assistere al sacro rito operato sull’ara e, nel caso, portar via un ramo di una pianta sacra.
Tre i tempi che hanno scandito la nostra vita fino ad ora: il passato, il presente, il futuro. Il “corona virus”, il nemico invisibile, ci ha posto di fronte ad un altro tempo, il tempo “sospeso”: una situazione a volte irreale, dove il tempo si è fatto silenzio, allontanamento, assenza di certezze, dolore.
Il tempo “sospeso” ci ha sorpresi fragili ed insicuri.
TEMPO SOSPESO
L’aria di marzo
sapeva ancora di inverno,
guardiano di giorni,
tempo e vita sospesi.
Non ho saputo chiudere in una scatola
quel vento freddo
portatore di sventura,
di abbracci spezzati.
Ho ritagliato il perimetro di una finestra
per far volare il pensiero,
dare aria alla paura
e con mano da contadina
ho tracciato un solco
fra desiderio del fuori
e comandamento del dentro
e non ho più contato i giorni.
Ho frantumato ogni singolo giorno
nel devastante dolore
delle perdite, delle partenze in solitudine
e nell’incertezza.
Ne ho contato il valore
nelle piazze vuote e strade deserte,
nei suoni e concerti della natura.
Ora non addenterò le sbarre della gabbia,
affamata di incerto ritorno
al tempo che verrà.
Ivana Moser 29 aprile 2020
OSSERVATORIO LINGUISTICO
Rubrica aperta ai contributi di tutti gli interessati
Noblesse oblige (ma non troppo)
di Giancarlo Marchesini
Un colpo al cerchio…
Non vorrei che i lettori che mi seguono in questa rubrica abbiano pensato che il mio ultimo articolo Noblesse oblige - questione di prestigio fosse un alibi per usare a man salva termini complicati o saccenti. … e uno alla botte
Il vero pericolo è trasformare un linguaggio tecnico in un gergo che è condiviso da pochi addetti ai lavori. Anzi, il gergo ha lo scopo, forse non dichiarato ma specifico, di escludere gli altri, di tracciare un cerchio intorno a pochi interessati. Pensate al gergo della malavita, degli spacciatori, dei carcerati… L’informatico, il medico, il ricercatore che si inorgogliscono delle proprie incomprensibili parole e abbreviazioni stanno sullo stesso piano dello studioso della lingua che propina termini quali “morfema”, “semantema”, “assiologia”, ecc.
Le conquiste dell’italiano contemporaneo
Nel bene e nel male l’italiano ha vissuto e sta vivendo una salutare semplificazione. La collettività, prima che i grammatici e le istituzioni, ha introdotto cambiamenti radicali nell’uso dei pronomi personali (lui, lei voi), dei tempi e dei modi del verbo e della costruzione sintattica. Potremo dilungarci su queste trasformazioni in un altro articolo. Per ora ci basti constatare che l’italiano di oggi è divenuto una lingua snella, duttile, aperta ai cambiamenti ed alla (sia pur contestata) contaminazione di altre lingue (uso a bella posta uso la parola contaminazione invece del termine tecnico ibridazione).
Le lingue straniere
Una volta si traducevano solo libri. Oggi è essenziale tradurre programmi informatici, istruzioni per l’uso, bollettini economici, descrizioni tecniche, relazioni e quant’altro. E sotto la spinta di lingue che hanno un minore divario fra scritto e parlato, l’italiano è riuscito ad adeguarsi, a svecchiarsi. Un sentito grazie ai nostri traduttori che talvolta, attirandosi le ire dell’accademia, hanno inserito nella lingua nuove parole e nuovi costrutti.
Voglia di nuovo, voglia di modernità
Con un affilato rasoio di Occam abbiamo tagliato via ingombranti preposizioni: sala (per il) parto, involtino (di) primavera, agenzia (di) viaggi, punto (di) vendita, ecc. (Per gli amanti della linguistica queste strutture prive di preposizione vengono definite “polirematiche”.)
Altra importante conquista è la valorizzazione della dislocazione a sinistra: Se dico “Ben sapendo che Luisa sarebbe tornata, Cesare disse/fece/pensò…” 1) metto in maggiore evidenza il ritorno di Luisa, che è il perno della frase, e 2) evito l’uso di strutture pesanti come “poiché”, “visto che”.
Non roviniamo questo slancio
Sarebbe un peccato se questo slancio verso la modernizzazione fosse intralciato da due fattori: 1) l’uso di parole “difficili” per distinguersi dalla massa e 2) il fatto di snaturare l’italiano inserendovi termini stranieri che potrebbero facilmente essere tradotti. Le “parole difficili” (e i termini stranieri) segnalano invariabilmente un’affannosa ricerca di prestigio. Il linguista danese Louis Hjelmslev distingueva fra forma dell’espressione e contenuto dell’espressione. Molti di coloro che in Italia scrivono per professione (non parlo delle chat, non parlo dei blog) preferiscono ripiegarsi sulla forma piuttosto che pensare ai contenuti.
Conclusione (per ora)
Un aneddoto per concludere: nei primi anni ’70 del secolo scorso frequentavo alla Sapienza le lezioni di Natalino Sapegno il quale si rivolgeva ai suoi studenti con il “loro”. Alle parole “Come loro certamente sapranno”, alcuni dei miei compagni si giravano indietro chiedendosi “Ma con chi sta parlando”? Oggi questo equivoco non si verificherebbe più, non tanto perché i miei colleghi di allora parlano un italiano più forbito ma perché il pronome loro (come forma di cortesia) è definitivamente tramontato, è una reliquia linguistica. E ben lo aveva capito Renato Rascel con il suo ironico “arrivederli”!
La lunga strada dell’emancipazione femminile
attraverso le due guerre mondiali del ‘900 / 1ª parte
di Francesco Bonanni
Le due guerre mondiali combattute nel Novecento furono portatrici di morte e di distruzione sia morale che materiale. Ma per i soliti paradossi della storia svolsero anche un ruolo innovatore, non solo nel campo politico-sociale, ma anche in quello dei costumi. Ed è proprio nell’ambito dei costumi che si è generata una accelerazione nel processo di emancipazione della donna, soprattutto in Italia che, all’inizio del nuovo secolo, era un Paese che, anche in quel campo, risultava il fanalino di coda nell’ambito della Comunità Mitteleuropea.
Grande utilizzo di manodopera femminile
a causa delle necessità belliche della 1a Guerra in vari settori produttivi, tradizionalmente riservati agli uomini. Quindi motivi contingenti, misero in atto una serie di cambiamenti non solo sociali ma anche di genere. Infatti le due guerre mondiali, al di là dei terribili aspetti tragicamente negativi, hanno prodotto così profonde trasformazioni nell’ambito della Società civile per cui si può tranquillamente affermare che alla fine dei conflitti ben poco è rimasto come prima. Completamente soggette ai propri padri e mariti, le donne fino al primo quindicennio del XX secolo, oltre a non godere del diritto di voto, non potevano esercitare la libera professione o assumere incarichi direttivi nella Pubblica Amministrazione.
Finalmente il diritto al voto
In Italia solo a guerra terminata con la Legge 117 del 17 giugno del 1919, le donne acquisirono quella capacità giuridica che consentì loro una maggiore, anche se relativa, autonomia nei confronti dei padri, dei fratelli e dei mariti. Tale legge, con tutti i suoi limiti, rappresentò pur sempre un importante primo passo avanti nella lunga strada dell’emancipazione femminile.
Finalmente un posto nella storia
Con la Grande Guerra per la prima volta le donne poterono uscire dalle case della propria famiglia in modo visibile per svolgere un ruolo pubblico, anche se tra mille diffidenze ed altrettanti ancestrali pregiudizi. Superati i confini domestici non furono più solo e unicamente madri, sorelle e spose ma anche: Postine, Tranviere, Operaie, Impiegate, Spazzine, Barbiere ed altro.
E proprio nell’ambito della tragedia rappresentata dalla guerra alcune testimonianze femminili lasciarono intravedere un vero e proprio senso di liberazione, di orgoglio e di accresciuta fiducia in sé stesse che fu riassunto dall’espressione: “Fuori dalla gabbia”.
Nel 1917 lo scrittore Ugo Ojetti sulle pagine del Corriere della Sera così descrisse il cambiamento allora in corso: “Per tutti gli interstizi una fiumana di donne è penetrata, gorgogliando e frusciando nei luoghi degli uomini: campi e fabbriche. Si stancano, si distraggono, sospirano, litigano, si impuntano, scioperano, minacciano, strillano ma i più lavorano e sono preziose”. È un primo importante riconoscimento, anche se può apparire opportunistico, in una Società all’epoca marcatamente maschilista.
(Continua)