La proposta del professor Guglielmo Di Dionisio
Festival degli sprechi
Cera una volta un’ltalietta giovane e povera povera, ma orgogliosa di aver compiuto il suo Risorgimento e di avviare il suo cammino di Nazione, di Stato Unitario e potersi così confrontare con gli altri Stati/ Nazioni europei. I nuovi governi, della destra e della sinistra si cimentarono anche per mettere in piedi un sistema di istruzione.
Affidarono ai sindaci l’istruzione elementare e cominciarono a costruire scuole, primarie e secondarie, classiche e tecniche; begli edifici tutti nuovi... quando non c’erano più seminari da requisire!
Insomma alla scuola quella classe dirigente ci teneva. Non entro nel merito delle finalità che si proponeva: istruzione terra terra, un po’ per tutti, purché buoni sudditi, a pochissimi quella elitaria, e via dicendo perché il discorso si farebbe complesso! Nessuno però può mettere in dubbio che gli anni dell’istruzione obbligatoria a poco a poco crescevano e l’istruzione secondaria si estendeva anno dopo anno in tutti i nostri grandi centri. Nelle nostre città ancora esistono questi edifici di fine secolo, dignitosi, maestosi, lunghi corridoi. Aule ampie e luminose, somiglianti a caserme, è vero, ma tra una certa istruzione e la leva militare a quei tempi non c’era molta differenza!
Insomma, quando eravamo poveri costruivamo e aprivamo scuole, ed anche nel periodo fascista, ovviamente per fare dei nostri baldi giovani littòri fedeli esecutori degli ordini del duce. Queste scuole costavano, ma le risorse si trovavano! Eppure eravamo poveri!
Ci demmo anche a deducere colonias pensando di diventare più ricchi e di esportare la nostra civiltà. Se ci serve un’altra terra piglieremo l’Inghilterra. Se ci viene il mal di pancia, prenderemo anche la Francia.
Così cantavamo. Ma poi... è andata com’è andata. Per farle breve, come mai, oggi che siamo diventati più ricchi, tagliamo, tagliamo, tagliamo? Ci dicono che è la crisi, ma non è da oggi che non si investe più nella scuola e proprio quando questa non è più la scuola l edificio ma è diventata un Sistema complesso, fatto per educare, istruire e formare..., verbi impegnativi, apprendere tutti e per tutta la vita... ancora più impegnativo! Educazione formale, informale, non formale. Quanti concetti, tutti nuovi di zecca per una società della conoscenza.
Tutti i documenti italiani ed europei che si occupano dell’istruzione dicono che bisogna investire sul capitale umano, più che su quello materiale...
Eppure! Eppure eccoci qua. Nelle scuole mancano i professori, i dirigenti sono costretti ad amministrare più scuole; tre segretarie sono troppe! Tagliare, tagliare. Non ci sono soldi, ci viene detto! Da anni abbiamo illuso tutti che potevamo/dovevamo avere la seconda macchina, la seconda casa, tre televisori ed u n telefonino a persona, ma quello più avanzato possibile.
E poi ci si è messa anche la corruzione. Soldi che vengono investiti in beni di consumo, nella chirurgia estetica per essere più belli e più giovani ad ogni costo! La società dell’uso e getta non solo ha moltiplicato i rifiuti che non sappiamo più come smaltire, ma ha penalizzato il bene pubblico.
E’ possibili invertire la rotta? Ho i miei dubbi, finché il popolo becero, quello degli illetterati, che sono molto più di un terzo della nostra popolazione, acquista SKJ solo per le partite di calcio. Sono anni che ci beiamo sul superfluo tanto che non ce ne accorgiamo più.
Ecco Sanremo, la grande parata canora perché... canta che ti passa!
E il bravissimo Amadeus che si porta a casa 500-600 mila euro; altri mostruosi compensi: a R. Benrgni 300 mila ,a Fiorello 250 mila, a T. Ferro 250 mila, a Georgia Rodriguez e al fidanzato 140 mila. Ma La cosa non ci stupisce, dal momento che molti, anzi, troppi di noi sono disposti
a pagare qualunque cifra per i circenses, ma mai un sesterzio per il panem!
Non lamentiamoci poi se abbiamo un televisore al plasma ma non un posto letto in ospedale! Abbiamo scelto il bene privato e superfluo invece del bene pubblico e necessario; e i risultati sono questi: meno ospedali, meno scuole, meno servizi. Abbiamo fatto il pieno del superfluo.
Allora domandiamoci: dov’è che dovremmo tagliare? Sul Superfluo o sul Necessario? Purtroppo il mercato è sovrano, anche se la nostra Costituzione detta cha l’iniziativa economica è libera, ma non può svolgersi In contrasto con l’utilità sociale.
E Sanremo continuerà a sorprenderei per lo share. Avanti c’è posto: galleria 100 euro, platea 180. Come non pensare ai nostri fratelli italiani e stranieri, grandi e piccoli che non hanno il pane?
Guglielmo Di Dionisio
Il libro di Paola Dubini, docente di economia alla Bocconi di Milano
Con la cultura non si mangia. Falso!
Paola Dubini, “Con la cultura non si mangia. Falso!”, Edit. Laterza, Roma-Bari 2018, pp. 128, Euro 12,00.
La tanto proferita e sciagurata espressione “la cultura non si mangia”, pare sia stata detta da un ministro della Repubblica italiana una quindicina d’anni fa, anche se lui nega decisamente, dicendo di essere stato frainteso. Comunque sia, si tratta di un luogo comune becero ed antico: l’autrice nell’introduzione al testo ci ricorda l’esempio del grande scrittore francese Flaubert che già nell’800 nel suo ‘Dizionario dei luoghi comuni’ evidenziava ironicamente l’inutilità della cultura e della letteratura in particolare. Un’affermazione che al giorno d’oggi, in Italia, più che essere proferita è data per ovvia, sottointesa, assodata e scontata.
L’autrice di questo saggio, docente di economia alla ‘Bocconi ’di Milano, intende dimostrare “che la cultura si mangia, ma anche a quali condizioni e come si può mangiare”(p. XVI), esplorando e decostruendo questo luogo comune parlando a volte di arte e a volte di cultura vera e propria, i due termini non sono sinonimi e fra loro c’è una bella differenza, ma vengono usati per meglio supportare gli argomenti trattati senza perdersi in dissertazioni sul concetto di arte e su quello di cultura. “Nel 1871, l’antropologo Tylor ha fornito una definizione di cultura come insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l’arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità ed abitudine acquisita dall’uomo come membro di una società…comprendendo fatti di ordine materiale e spirituale, pratico e simbolico”(p.4). Capiamo chi siamo grazie alla cultura, in opposizione, -soprattutto nelle società complesse e massificate- “al bisogno di apparire, il consumismo esasperato, la mercificazione dell’esistenza, contrastando i processi di omologazione”(p. 7), acquisendo nella materialità ed immaterialità della cultura gli elementi simbolici ed identitari, per evitare gli offuscamenti e le patologie identitarie, tipiche nelle società complesse, ‘liquide’ e globalizzate(cfr. pp. 8 e 9).
Successivamente l’autrice fornisce un elenco di siti, di luoghi, attrazioni paesaggistiche, ambientali ecc. fornite dall’UNESCO e riconosciute in Italia dalla legge 146 del 1990. Ben 1100 sono i siti censiti dall’UNESCO dal 1972 in 167 paesi, solo in Italia ve ne sono ben 54 che costituiscono beni da salvaguardare non solo per gli introiti economici ma soprattutto perché costituiscono il profilo identitario di un territorio con delle ricadute positive non solo economiche e a breve tempo, ma anche a scadenza più lunga. Infatti le statistiche europee e non solo, stabiliscono delle correlazioni positive fra investimenti in cultura, scolarità, riduzione degli abbandoni scolastici, l’abbassamento dei livelli di criminalità, l’aumento della qualità percepita della vita(cfr. p 87), delineando anche le linee di sviluppo e di tendenza di un territorio (cfr. p. 113). Così Paola Dubini, conti alla mano, ci mostra che la cultura, è un valore materiale ed immateriale, e il volontarismo, l’associazionismo che ruotano attorno ad essa costituiscono una risorsa aggiuntiva. Il pericolo è quello di una cultura intesa come perimetro fortificato, impermeabile e rigido, sovranista ed identitariamente etnocentrista; la cultura, invece, per essere tale va intesa come processo e percorso, adattamento plastico e flessibile, capace di entrare in contatto con le altre culture, confrontarsi, modellarsi, arricchirsi e contaminarsi rinnovandosi incessantemente. Altro errore sarebbe quello di considerare la cultura come sapere, conoscenza o solo arte e scienza; la cultura è esperienza di vita in determinati contesti sociali, è ethos vissuto e convissuto e ha ben poco di scolastico. Quindi non basta musealizzarla, chiuderla in una teca, istituzionalizzarla appannaggio delle persone istruite e colte, o consegnarla ai mercati locali o transnazionali, ha bisogno invece dei suoi luoghi e mondi vitali, dei suoi contesti, è pratica quotidiana, elaborazione civica e partecipata. L’evento o l’attrattiva turistica o l’espressività artistica sono cultura quando diventano veicolo di crescita civile, prospettiva, progetto intelligenza collettiva; stare nei musei, nei mercati, nei percorsi turistici non basta.
Il sociologo francese P. Bourdieau sostiene che “la cultura contribuisce in modo determinante a definire la posizione sociale di un individuo”(p.30), determinandone i gusti, il suo stile di vita, la scolarità, il patrimonio culturale personale e quello da poter trasmettere ai propri figli ecc. Quindi la cultura non solo si mangia e dà da mangiare, ma è anche, a livello individuale, un veicolo di promozione socioeconomica di ciascuno, permettendo, a livello del singolo e della collettività “la costruzione di immagini potenti, che unificano attraggono, governano le differenze e i conflitti; al tempo stesso è fragile e va protetta perché è composta da una stratificazione e da una grande varietà di forme espressive…Tanto che gli immaginari che essa crea…devono essere continuamente riproposti e reinterpretati attraverso forme espressive nuove e diverse così da mantenere la sua capacità di suggestione e di significato”(p. 23), riuscendo a rimanere sé stessa, conferendo identità, e, al tempo stesso trasformandosi incessantemente.
Quindi non solo si mangia, ma anche, come diceva A. Moravia, “la cultura serve a spendere bene i propri soldi”(p. 31).
Giuseppe Chitarrini
Asintomatico il gatto infetto
Dopo che in uno zoo del Bronx quattro tigri e tre leoni presentavano tosse secca, sintomi evidenti del contagio del temibile COVID-19, effettuati i tamponi, sono risultati tutti positivi. Sottoposto il guardiano “asintomatico” ai test, è risultato anch’egli positivo, quindi se ne è dedotto che proprio lui abbia infettato gli animali, che, sottoposti alle cure del caso, stanno guarendo. Ad Anzio è successo un fatto singolare: un signore, risultato positivo al Coronavirus ha dovuto abbandonare il suo amato gatto per essere ricoverato in ospedale.
Preoccupato per la bestiola, lo ha affidato a due suoi conoscenti perché lo accudissero in sua assenza. Dopo pochi giorni, anche la coppia che si prendeva cura del gatto ha accusato i sintomi da COVID-19 e, sottoposta ai tamponi, è risultata positiva. Si è ipotizzato quindi che fosse stato il felino a trasmettere loro il virus. Subito il gatto è stato portato in sicurezza all’Istituto Zooprofilattico sperimentale della Toscana e del Lazio per essere sottoposto ai tamponi, che in seguito sono fortunatamente risultati tutti negativi. Il gatto è asintomatico, fanno sapere dalla ASL Roma 6, comunque rimane sotto osservazione sanitaria da parte dei veterinari della struttura, mentre è ricoverato nel gattile comunale. L’istituto Superiore di Sanità ha ribadito che non ci sono prove per cui una persona possa essere infettata da animali domestici, o di compagnia come cani e gatti, ossia che non esistono tuttora casi di trasmissione del COVID-19 dagli animali all’uomo. Quindi i possessori di cani, gatti ecc. possono dormire sonni tranquilli.
Rita Cerasani