L’ERETICO FRA’ DOLCINO
di Ornella Ferrari Pavesi
A volte basta un nome per stuzzicare la voglia di evocare personaggi che a quel nome sono legati. Proprio come mi è successo leggendo di Bertrand de Got citato da Francesco Bonanni su Il Litorale di luglio a proposito della Fine del potere temporale papale.
La Crociata contro l’eretico predicatore
Sì, quel Bertrand de Got salito al soglio pontificio con il nome di Clemente V e che indisse una crociata nel 1307 contro l’eretico fra’ Dolcino.
L’appellativo di fra’ Dolcino se lo mise da solo perché, pur improvvisandosi predicatore, non era mai stato accettato nell’ordine dei frati minori.I suoi attacchi contro la corruzione e l’avidità della Chiesa facevano di lui un uomo pericoloso da zittire al più presto. Concetti come libertà, fraternità ed uguaglianza da lui sostenuti nel nome della carità e della penitenza, non erano ancora maturi per essere recepiti in quei tempi.
Dovevano passare ben 400 anni, con la Rivoluzione Francese, per diventare il fondamento delle future nazioni.
Chi era costui?
Di Dolcino si sa pochissimo perché non è certa la sua data di nascita stimata intorno al 1280 circa avvenuta forse a Prato Sesia, dove esiste tutt’ora una via a lui dedicata. Ci sono incertezze anche sul suo nome e ciò contribuisce a creare un alone di mistero intorno alla sua figura. Lo storico dell’epoca, Salimbene, lo descrive come uomo violento nemico della morale clericale corrente. Sin da ragazzo aveva manifestato un’indole alquanto ribelle, refrattaria all’autorità, nonostante gli sforzi del maestro Syon che insegnava ai ragazzini a leggere e a scrivere per prepararli all’apprendimento del latino. Al giovane Dolcino però, intelligente e ricettivo, la disciplina andava stretta e scelse una strada più consona al suo temperamento: quella del predicatore, secondo gli insegnamenti del suo maestro Gherardo Segarelli, fondatore degli Apostolici, al grido di Penitenziagite. E lo fece con tale passione da incantare folle di scontenti subissati dalle Decime da versare a padroni e clero, e resi più poveri di quanto già non fossero.
Dolcino e Margherita
Quando nel 1304, arrivò in Valsesia con la compagna Margherita da Trento e un considerevole numero di seguaci, trovò terreno fertile tra i valligiani restii a sottostare alle imposizioni dei Vescovi di Novara e Vercelli proprietari di pascoli e vasti terreni.
Le sue invettive contro il Clero, e le azioni violente nei confronti dei suoi rappresentanti, lo avevano reso famoso e così, dopo un breve soggiorno a Campertogno, fu costretto a rifugiarsi con tutto il suo seguito di dolciniani sulla Parete Calva, nei pressi del paese di Rassa e dal cui pianoro poteva dominare tutta la valle onde prevenire le incursioni nemiche.
I suoi seguaci non ebbero vita facile nei due anni successivi, assediati dal freddo, dalla fame e dagli armigeri dei due vescovi coalizzati contro Dolcino.
Tentativo di fuga
Anche i valligiani erano stremati dalle sue incursioni per procurarsi il cibo e, quando Margherita trovò un varco attraverso cui fuggire verso il biellese, fu una liberazione.
Quel varco è a tutt’oggi segnato sulle cartine con il nome di Varga monga, il Varco della monaca, così chiamato in onore, o in spregio, a Margherita quale concubina di Dolcino.
Lei li guidò fino al monte Rubello, sopra Trivero, dove lo sgangherato esercito di dolciniani trovò la morte per mano delle milizie pontificie di Clemente V.
Dolcino e Margherita furono invece catturati vivi per essere bruciati come eretici, l’una sulle rive del torrente Cervo nei pressi di Vercelli, l’altro il primo giugno del 1307 sulla piazza di Vercelli dopo orrende torture. Proprio come accadde sette anni prima a Parma al suo maestro Gherardo Segarelli.
Tutto questo è raccontato nel mio romanzo Il Varco della monaca di cui l’eretico e Margherita, sono stati gli ispiratori.
OSSERVATORIO
LINGUISTICO
Rubrica aperta ai contributi
di tutti gli interessati
Espressioni idiomatiche
Per un punto Martin perse la cappa
di Giancarlo Marchesini
La mancata cerimonia di inaugurazione di una targa commemorativa in nome del beneamato presidente Carlo Azeglio Ciampi (1° giugno 2021) ci suggerisce una nuova riflessione sulle espressioni idiomatiche.
Il “fattaccio”
La targa doveva essere esposta nel Largo, intitolato, appunto, all’ex Presidente, sul Lungotevere Aventino. Ma ancor prima che fosse tolto il drappo che la copriva si è scoperto che l’oggetto incriminato riportava un clamoroso errore “anagrafico”: Azelio invece di Azeglio.
L’assenza della “g” ha causato il giusto risentimento delle autorità presenti (i presidenti Mattarella, Casellati e Fico) che si sono defilate interrompendo la cerimonia. Questo strano (e deplorevole) episodio mi ha richiamato alla mente una diffusa espressione che viene usata spesso, magari senza conoscerne né il vero significato né la storia.
Mi riferisco all’adagio “Per un punto Martin perse la cappa”.
Dovremo approfondire il suo significato barcamenandoci col latino, ma non abbiate paura le traduzioni sono facilmente comprensibili.
La storia
Martino, abate del monastero di Asello (in Toscana) intendeva abbellire il portale della propria abazia con una frase di benvenuto: Porta patens esto. Nulli claudaturhonesto. (Sia questa porta sempre aperta. Non sia chiusa all’uomo onesto).
L’artigiano incaricato del lavoro sbagliò però la posizione del punto fra le due frasi: Porta patens esto nulli. Claudaturhonesto. (Questa porta non sia aperta per nessuno. Resti chiusa per l’uomo onesto).
Questo errore “di battitura” costò molto all’abate Martino. Un tale messaggio, così contrario alla carità cristiana venne sanzionato dalle autorità ecclesiastiche che decretarono la rimozione dell’abate dalla sua carica, privandolo della cappa che di tale dignità era simbolo. Di qui la frase: Per un punto Martin perse la cappa.
Conclusione
Chissà se l’errore Aze(g)lio Ciampi costerà la “cappa” a un più o meno oscuro funzionario del Campidoglio responsabile dell’atto?
Quella targa è stata ordinata, disegnata, realizzata e poi messa al suo posto, operazioni che ne hanno reso necessario il passaggio in diverse mani comprese quelle di un certo numero di funzionari dell’amministrazione capitolina. (Cito da Roberto Arditti, Formiche.net del 1° giugno 2021).
La sindaca di Roma, Virginia Raggi, ha annunciato che il colpevole è stato identificato e rimosso: forse non sapremo mai chi ha commesso l’errore perché tutto quello che finisce sui social resta avvolto nei fumi oscuri delle fake news, delle accuse campate in aria, della cospirazione, per non parlare della privacy, fin troppo spesso accampata ad usumdelphini.
ROMA CAPITALE D’ITALIA
Fine del potere temporale papale
20ª parte
di Francesco Bonanni
Crisi tra Pontefici e Sovrani
La Cattività Avignonese rappresentò un periodo piuttosto difficile sia all’interno del Papato che nelle relazioni tra il Pontefice e i Regnanti Europei.
Il Re di Francia Filippo il Bello, che già si era scontrato con l’intransigenza di Bonifacio VIII, approfittò della situazione di debolezza di Clemente V e, dopo aver ottenuto la riabilitazione dei Colonna, autori della “Impresa di Anagni”, decise nel 1314 di portare a termine con l’appoggio del Pontefice la persecuzione nei confronti dei Templari.
I Templari
Già dal 1307 il ricco Ordine Cavalleresco era stato oggetto di una pesante campagna denigratoria. Furono accusati di vari reati infamanti, in particolare di Lussuria e di Eresia. La vera ragione di tanto accanimento è attribuibile alla loro notevole ricchezza accumulata durante le Crociate costituita in gran parte da vaste proprietà terriere in Franciacontese da Filippo.
Di fronte alle pretese del Sovrano francese Clemente si mostrò talmente arrendevole da decretare con il Concilio di Vienne del 1312 la soppressione dell’Ordine dei Templari alla quale seguì la condanna al rogo dei Monaci Guerrieri, compreso il Gran Maestro Jacque de Molay.
La Cattività Avignonese
I successivi cinque Pontefici che succedettero a Clemente V furono tutti francesi e completamente sotto l’influenza del Sovrano francese. Durante il periodo della “Cattività Avignonese” Papa Innocenzo VI aveva affidato al Cardinale spagnolo EgidioAlbonoz il compito di pacificare i territori pontifici, per cui sottomise i Signori del Lazio, dell’Umbria, delle Marche e dell’Emilia-Romagna consentendo in tal modo la possibilità di un successivo ritorno del Papato a Roma.
Albornoz si comportò come un vero Condottiero: con l’arruolamento di truppe mercenarie conquistò città e castelli ed eresse fortezze per il controllo dei territori. Inoltre emanò le famose “Costituzioni Egidiane”, la prima raccolta di Leggi per il governo dello Stato Pontificio.Francesi erano anche la maggior parte dei Cardinaliche nominarono i Governatori ed i Legatidelle Province dello Stato della Chiesa.
Si verificò così una profonda crisiin Italia ed una conseguente instabilità politica che culminò in gravi scontri tra il Partito Guelfo capeggiato dal Re di Sicilia e il Partito Ghibellino, organizzato dalla potente Famiglia dei Visconti.Tale instabilità rappresentò tra l’altro un grave pericolo per lo stesso Stato della Chiesa. Difatti, nel 1371 i Signori di Milano, Bernabò e Galeazzo II dei Visconti durante la guerra contro gli Estensi minacciarono i territori della Chiesa.
Si ritorna a Roma
Di fronte ad una situazione così grave Papa Gregorio XI, anche a seguito dei pressanti appelli di Caterina da Siena e della religiosa e mistica Brigida di Svezia(fondatrice dell’Ordine del Santissimo Salvatore)e alle sollecitazioni di Carlo V di Lussemburgo, prese la decisione di riportare la Sede Pontificia a Roma.
Malgrado l’opposizione del Re di Francia e le resistenze della maggioranza dei Cardinali, costituita da Francesi, il 13 settembre dl 1374 il Pontefice partì da Avignone per rientrare definitivamente a Roma dove giunse il 17 gennaio del 1377.