STORIA DELL’OPERA LIRICA
A cura del maestro Carlo Liberatori
PREMESSA
Sul corpo dell’opera, la storia non si compromette con la cronaca, l’arte si costringe a giocare con il costume, il sublime della poesia scende a tingersi dell’umiltà del quotidiano, dell’episodico, dell’aneddotico. Per una ragione su tutte. Che l’opera non la si pensa, non la si legge, non la si elabora soltanto a tavolino, o sulla tastiera di un pianoforte. Una volta composta, l’opera viene interpretata, rappresentata, ascoltata e vista e giudicata, applaudita o contestata da migliaia di persone. E poi, eventualmente e sperabilmente, viene replicata in circostanze diverse, mediante altri esecutori e davanti ad altri pubblici variamente disposti, per gli anni, i decenni e magari anche i secoli a venire. Ecco la scomoda e sconfinata varietà dell’opera lirica, un “genere” che spazia intrepido fra musica e scena, fra parola e gesto, fra scrittura e oralità, fra trionfi incondizionati e tonfi inappellabili. Materia viva e vibrante, ben più salda di altre espressioni artistiche e musicali sul terreno dell’attualità e della popolarità, fortunatamente l’opera lirica attinge spesso a grandi vertici di pensiero, di teatralità e di poesia, ed allora raggiunge il vanto di una assolutezza artistica pari a quella di altre forme apparentemente più nobili ed elevate. Per un Faust di Goethe, dalle Nozze di Figaro di Mozart alla Traviata di Verdi, dalla Norma di Bellini alla Carmen di Bizet, dal Boris Godunov di Musorgskij al Parsifal di Wagner, sono innumerevoli i casi di opere liriche superiori ai loro modelli letterali e teatrali. Se poi l’Otello di Verdi non ha nulla da invidiare all’Otello di Shakespeare, è anche vero che la millenaria fortuna del mito di Orfeo non ha raggiunto molte posizioni letterarie e figurative pari a quelle musicali. La lunga storia dell’opera si presenta, quindi, come la fitta sedimentazione di mille e mille autori e titoli, date e luoghi, teatri e cantanti, fatti e occasioni, ma anche come fioritura di eventi artistici che per quattro secoli hanno fatto lievitare la memoria e la coscienza, la vita e la cultura e, comunque, l’intera e complessa avventura della civiltà umana.
SCRITTURA AL FEMMINILE
Rubrica aperta a tutti
QUERELLE DES FEMMES:
Poetica femminile del Duecento e poetesse dell’al-Andalus /2
di Ivana Moser
In Italia il dibattito della Querelle des Femmes (dibattito/polemica in forma scritta mirato all’equo riconoscimento del valore delle donne e all’affermazione della loro dignità anche a livello letterario) si sviluppa soprattutto durante il XV e XVI secolo attraverso trattati di vari autori ed autrici, ma per la realtà letteraria italiana è ipotizzabile un precedente importante rappresentato, a livello di temi e contenuti, dalle poetesse italiane del Duecento e del Trecento, Compiuta Donzella e Nina Siciliana, già trattate in questa rubrica, e il Gruppo di petrarchiste marchigiane e bolognesi. Nonostante manchino un’esaustiva documentazione e testimonianze sul contesto culturale di dette autrici, è individuabile una sorta di continuità letteraria fra le espressioni letterarie femminili italiane dell’epoca e la tradizione letteraria anteriore delle poetesse dell’al-Andalus, secoli X, XI e XII e delle trobairitz, le trovatore, secoli XII e XIII. In queste tre generazioni di autrici, dal sostrato e contesto culturale differente, sono riscontrabili alcuni temi e contenuti letterari comuni della Querelle des Fammes: l’intraprendenza amorosa, il confronto con gli uomini sul terreno letterario, la difesa del ruolo della donna nella cultura e lo scambio poetico con poeti contemporanei o comunque la citazione dei loro nomi da parte di quest’ultimi (Nina Siciliana e Dante Da Maiano, Compiuta Donzella ricordata da Mastro Torrigiano e Guittone d’Arezzo).
Con POETESSE DELL’AL-ANDALUS ci si riferisce al gruppo di autrici che composero versi nei secoli X, XI, inizio XII, durante il periodo in cui la penisola Iberica era sotto la giurisdizione araba. I contenuti della tradizione dell’al-Andalus si snodano fra versi di richiesta d’amore, formulati liberamente senza alcuna censura, di lamento per l’assenza dell’amato e di invito all’amato o interlocutore a palesarsi. Quest’ultimo genere troverà ampio sviluppo nella lirica trovadorica e anche nella tradizione italiana, all’interno della tenzone poetica. Così ad esempio il sonetto di Nina Siciliana (XIII sec.) nello scambio poetico con Dante da Maiano: «Qual sete voi, che cara profferenza / sí fate a me, senza pur voi mostrare?» (Chi siete voi che mi fate preferenza / senza tuttavia mostrarvi?). La domanda è molto diretta, mentre sicurezza e autorevolezza di Nina aumentano con l’avanzare dei versi, «così affermo, e voglio ognor che sia, / d’ udendovi parlar è voglia mia.»
Altro tratto comune è la scrittura come strumento di presa di coscienza della condizione femminile e di rivendicazione dei propri diritti. Nei suoi versi ribelli Compiuta Donzella (XIII secolo) denuncia la prospettiva di un marito che il padre, presumibilmente per interesse, vorrebbe imporle «ed io di ciò non ho disio né voglia.» In altro sonetto (tenzone poetica forse con Chiaro Davanzati) la presenza di molti termini provenienti dalla poesia amorosa precedente testimonia la conoscenza di Compiuta della tradizione letteraria della lirica d’amore delle poetesse dell’al-Andalus e delle trobairitz.
La principessa WALLADA (Wallada Bint Al Mustafki 994-1091) è la più nota tra le Poetesse dell’al-Andalus. Definita la “Saffo andalusa”, destina parte della sua dote all’istruzione di altre ragazze e istituisce un salotto letterario così descritto in una cronaca del tempo: «il suo salotto era/ […] come un campo percorso dai cavalli / della poesia e della prosa, spronati al galoppo.»
Wallada incarna l’ideale di libertà ed indipendenza, è personaggio anticonformista e provocatorio: «Allah mi ha creato per la gloria, / ma io seguo orgogliosa il mio cammino, / sulla mia guancia comandi pure l’amante, / i miei baci li offro invece a chi li desidera.» Della vasta produzione di Wallada, si conservano solamente nove poemi, molti riconducibili al suo legame con il poeta Ibn Zaydun. I suoi versi scandiscono il grande amore fra passione, «[…] Sento un tale amore per te / che se lo sentissero gli astri, / non brillerebbe più il sole, / non spunterebbe la luna / e le stelle non inizierebbero affatto / il loro notturno viaggio.», gelosie, tradimenti e abbandono «Se fossi stato giusto […] non ameresti, né avresti preferito, una mia schiava. / Hai lasciato i rami dove fiorisce la bellezza / e hai scelto rami che non danno frutti. / Sai bene che sono la luna dei cieli, ma hai scelto, per mia disgrazia, / un pianeta oscuro». La delusione di Wallada si trasforma in risentimento e rabbia, racchiusi in una celebre satira, dove Wallada apostrofa il traditore con colorati epiteti: pederasta, puttaniere, adultero, bastardo, cornuto e ladro oscuro. Il tema amoroso torna in un sonetto dedicato all’amante succeduto a Ibn Zaydun: «Sei il generoso e questa pozza d’Acqua è l’Egitto, / straripante, noi due insieme siamo il mare.»
A’ISA AL-QURTUBIYYA, cordovese, vissuta intorno al secolo X. Spicca fra i suoi poemi l’orgogliosa risposta ad una richiesta di matrimonio: «Sono una leonessa/e non mi sono mai piaciute le tane altrui, /e se dovessi scegliermi qualcuno, /non risponderei mai a un cane, io che tante volte/non ho voluto ascoltare i leoni.» Qui la poetessa stravolge il richiamo al mondo animale, tradizionalmente accostato alle donne in maniera spregiativa, per porsi determinata, fiera e autorevole.
HAFSA BINT HAMDUN Al-HIYARYYA, vissuta nella stessa epoca e originaria di Guadalajara, rivendica nei suoi versi il proprio stato di donna e di poetessa: «Ho un amante che non si rattrista / nelle nostre schermaglie amorose / e se lo lascio, / il suo orgoglio cresce. / E mi dice: “Hai mai visto qualcuno che mi assomigli?” /E io gli rispondo: “E tu, / hai mai incontrato / chi mi faccia ombra?»
AL-GASSANIYYA AL-BAYYANIYYA (X secolo). Di lei si sono conservati solo alcuni versi di un panegirico amoroso, immagini che rompono con lo stereotipo di passività femminile: «[…] il giardino della vita, radiante e profumato./ Notti felici nelle quali non temevo i rimproveri quando amavo,/ né mi spaventava l’abbandono quando eravamo insieme,/quando il piacere ci assaltava e i desideri abbracciavamo /come i rami che si abbracciano spinti dal vento./ Ah magari sapessi, ora che arriva la separazione, / se mi amerai, dopo che siamo separati, come prima.»
HAFSA BINT AL-HAYY AR- RAKUNIYYA (1135 – 1191), protagonista di un triangolo amoroso tra lei, il governatore ed il poeta Abu Ya’far, conclusosi con la tragica morte di quest’ultimo, fatto che interruppe la vena poetica di Al-Rakuniyya.
Molti dei suoi versi fanno riferimento al tormentato amore con il poeta, versi che brillano per la bellezza delle metafore, carichi di desiderio: «Vengo io da te o verrai tu a farmi visita? Il mio cuore sempre si curva verso i tuoi desideri. / Troverai rimedio alla sete e all’ardore del sole / quando mi darai la benvenuta:/ le mie labbra sono acqua dolce e fresca, / e i rami delle mie trecce offrono un’ombra generosa. / Rispondimi in fretta, non è bello, oh, mio Yamil, / far aspettare la tua Butayna.» (Yamil, poeta arabo, e Butayna la sua amata: coppia di amanti perfetti per antonomasia).
UMM AL-HASAN ALA BINT YUSUF AL-HIYARIYYA secolo XI. I suoi versi pongono l’accento sull’importanza dello studio e della cultura come mezzo di emancipazione: «La bella lettera non serve alla scienza / è solamente un adorno nella carta;/ lo studio è la mia meta e non desidero altra cosa, / poiché in base al suo sapere, / il giovane si eleva sui mortali.»
Questo tema troverà corrispondenza nelle poetesse italiane del Trecento, argomento del prossimo articolo.
Riferimenti bibliografici:
La Querelle des Fammes, Mercedes Arriaga, 2008;
Sorelle di Querelle, Daniele Cerrato, 2017;
Cammino orgogliosa per la mia strada, Fusibilialibri 2015.
OSSERVATORIO LINGUISTICO
Rubrica aperta ai contributi di
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Obrigado - Obbligato
di Lello Agretti
Uno dei miei difetti è non saper parlare una lingua straniera. Pur avendo imparato a scuola francese e inglese, il residuale è assolutamente scolastico sicché, se succede di andare in vacanza all’estero, mi è impossibile imbastire una benché minima conversazione e della lingua locale mi riesce d’apprendere solo parole che significano: buongiorno, buonasera, grazie, prego, mi scusi, per favore e, quando va bene: bello, buono, destra, sinistra, via, piazza sebbene, nella loro elementarità, mi aiutino a strappare un sorriso benevolo all’interlocutore di turno. Tuttavia, nonostante questa povertà di vocabolario, è capitato d’innamorarmi di una tra queste e, quando mi torna alla mente, essa ha il potere di sradicarmi dalla quotidianità e lanciarmi in un vagabondaggio immaginativo carico di nostalgia.
Obrigado è parola portoghese che, tradotta in italiano, significa grazie.
Obrigado si pronuncia così come è scritta, ma detta in modo formale non lascia nessunissima traccia di sé nella mano, nell’orecchio, nello sguardo dell’altro/a, al modo stesso di quando, in modo sbrigativo seppur cortese, noi italiani diciamo grazie. Se, invece, si trattiene presso di noi (questa come ogni altra parola), è per il felice incontro-scambio col nostro vissuto che, mentre s’arricchisce, al tempo stesso informa di sé quella parola.
Quando obrigado è ac-caduta dentro di me, la sua musicalità non ha trovato ostacoli; anzi, con la sua esattezza, si è insinuata sotto le vesti del grazie italiano rivelando il tradimento che è di ogni traduzione. Infatti, alla coscienza è sorto non tanto il puro e semplice significato di obbligo (dovere) della gratitudine, quanto il sentimento di riconoscenza verso chi ha contribuito alla nostra gioia, di riconoscergli, cioè, il giusto merito; di fare a mezzo con chi ha ispirato i nostri pensieri, i nostri passi; di fare spazio e destinargli un posto definitivo nell’anima.
Obrigado è più dolce di obbligato e, poi, non è spendacciona, non obbliga a doppiare la “b” e non porta a sbattere contro il suono duro della “t”. Non eccede mai, anzi è misurata e schiva insieme, come l’inchino giapponese.
Così felicemente debitore e grato mi sento, e a chi mi ha portato fin qui queste pagine dedico.