OSSERVATORIO LINGUISTICO
Rubrica aperta ai contributi
di tutti gli interessati
I canti di Natale e
fine anno
Retrospettiva
di Giancarlo Marchesini
Non vi preoccupate. Non vi sto per ammannire un’esegesi di Tu scendi dalle stelle o, non sia mai (!), di Notte silente (brutta traduzione di Silent Night), brano esistente in tutte le lingue del creato più una e sul quale sono stati versati fiumi d’inchiostro.
Un caso personale. Sarà capitato anche a voi di alzarvi la mattina, raggiungere e tentoni la macchina del caffè e accorgervi che state canticchiando un motivo, un’aria che è sgorgata nella vostra mente senza accorgervene e che magari vi perseguiterà per tutta la giornata.
Chissà quale sogno, quale attesa, quale timore l’ha fatta prelevare dal vostro repertorio inconscio e riprodurre mentre, per disattenzione, fate cadere, imprecando, la tazzina del caffè ola rovesciate su una tovaglia pulita di fresco.
A lume di candela (Auld Lang Syne). A gennaio inoltrato, mi sono svegliato canticchiando (nostalgia delle feste di Natale?) il Valzer delle candele che, nella tradizione anglosassone, è il brano con cui si abbandona il vecchio e si accoglie il nuovo anno). Tempo di valzer, sì (è indubbiamente un3/4) ma perché le candele? Storicamente per via di un riadattamento eseguito in un film americano (Il ponte di Waterloo). A mio parere, però, nell’immaginario collettivo le candele (vere o artificiali) rievocano le feste di Natale, i regali, i baci sotto il vischio, le speranze di un nuovo corso.
E visto che alla seconda tazza di caffè il valzer delle candele, continua a ossessionarmi, ci sono soltanto due possibilità di esorcizzarlo: mettersi al piano e suonarlo ad orecchio oppure scriverci sopra. La soluzione pianistica è impraticabile perché sono le sette del mattino di un qualsiasi giorno dell’anno e non voglio turbare il giusto riposo dei miei vicini. Allora scrivo. Ed ecco spiegata la genesi di questo articolo.
Il titolo originale è Auld Lang Syne, un antico brano scozzese che celebra l’amicizia. Auld è la versione scozzese di old (vecchio) e syne corrisponde al britannico since (da quando). Una traduzione della versione anglo-scozzese del brano suonerebbe I bei tempi andati.
Auld Lang Syne inizia con una struggente domanda retorica: “Perché dimenticare le vecchie amicizie e cancellarle dalla memoria? Perché dimenticare i bei tempi andati”?
Il valore del passato. In un momento in cui il nuovo anno ci incita a fare tabula rasa, l’antica saggezza scozzese rivendica il valore della memoria. Forse, nell’anno trascorso ci sono stati momenti (o amicizie) da dimenticare, ma come sempre, commisti a qualcosa di buono, a una sia pur piccola felicità che ha illuminato un percorso di vita. In altri termini: l’oblio non può essere selettivo, non possiamo, a piacere, obliterare le cose brutte e conservare nella memoria quelle buone.
Amicizie o conoscenze? Il testo è radicale: non parla di amicizie (friendships) ma di acquaintances conoscenze, quindi anche quei contatti del momento, occasionali, che si sono verificati durante l’anno e che, pure, hanno contribuito a intessere il nostro vissuto.
Gli scout. Ed è significativo che questo canto venga scelto per celebrare la fine del jamboree, il raduno degli scout che si celebra in molti paesi del mondo.
Nelle intenzioni di Robert Baden Powell, il fondatore dello scautismo, il jamboree aveva lo scopo di accogliere ragazzi di ogni paese ed estrazione sociale facendo loro vivere, per un breve periodo, un’esperienza di gioco, conoscenza e partecipazione. Con un linguaggio gastronomico, ma suggestivo, Baden Powell definiva il jamboree come un boy jam, una marmellata di ragazzi. In termini leggermente più alati potremmo definire il jamboree un crogiuolo di conoscenze, esperienze e modi di vita.
Marmellate e confetture. Se qualcuno di voi trovasse sconcertante la nozione della “marmellata” come insieme di sentimenti, aspirazioni, lotte e delusioni, pensi soltanto a come il nobile testo di Auld Lang Syne è stato tradotto e banalizzato nella sua versione italiana: “Domani tu mi lascerai e più non tornerai, domani tutti i sogni miei li porterai con te”. Una valorizzazione del passato come desiderio di introspezione ridotta a un insipido fumettone. Non voglio sapere chi è il mentecatto che ha prostituito il nobile canto scozzese. Preferisco cantarlo in originale, magari stonando il fa della terza ottava ma rendendo giustizia a una nobile tradizione.
I RACCONTI DAL FARO
UNA STORIA AMERICANA
IL LUNGO SENTIERO – “Non molto tempo dopo che con la mia famiglia mi ero trasferito in una cittadina del New Hampshire” (ndr: Stato USA nella regione del New England) “mi capitò di imbattermi in un sentiero che svaniva in un bosco alla periferia della città. Un cartello annunciava che quello non era un sentiero ordinario, ma il famoso “Sentiero dei Monti Appalachi” […]. Sono queste le parole con le quali lo scrittore statunitense Bill Bryson inizia il suo interessante libro “Una passeggiata nei boschi” (A walk in the woods, Black Swan edition, 1998, London, UK, Cap. I, pag. 11). In effetti, che quello non fosse un sentiero comune lo dimostra il fatto che si snoda per 3536 km sulla catena montuosa degli Appalachi parallelamente alla costa atlantica del Nord America, attraversando 14 Stati in territorio statunitense, dalla Springer Mountain in Georgia al Mount Katahdin nel Maine. Inoltre, la sua continuità come sentiero non ha termine nel Maine americano, in quanto prosegue oltre la frontiera, nel Canada, per altri 3100 km sino al Nord dell’Isola di Terranova, prendendo in questo secondo tratto il nome di “Sentiero Internazionale degli Appalachi”.
Nonostante Bryson scherzosamente nel titolo del libro lo definisca “passeggiata” (“a walk”), chi riesce a percorrere ininterrottamente dalla Georgia al Maine il sentiero degli Appalachi compie una impresa, non solo per la lunghezza del tracciato (sono necessari almeno 5-6 mesi per portarlo a termine da un capo all’altro), ma anche per le difficoltà che vi si incontrano. I pericoli e i rischi derivano dall’attraversare fitti boschi, foreste e montagne, in alcuni tratti senza incontrare centri abitati o rifugi per centinaia di chilometri e, quindi, senza
possibilità di assistenza in caso di necessità. Vi sono inoltre da fronteggiare severe condizioni atmosferiche, la natura selvaggia popolata da orsi neri, serpenti velenosi (a sonagli e acquatici), nidi di vipere, linci, coyotes, lupi, cinghiali, procioni e scoiattoli aggressivi, infezioni (da insetti, da vegetazione e cortecce velenose), formiche di fuoco. E non solo, perché gli escursionisti devono guardarsi anche da esseri umani solitari e sbandati, fuori di senno e violenti per assunzione di alcool distillato da cereali o da bacche selvatici. Inimmaginabile è ciò che può accadere lungo la catena dei Monti Appalachi a un civilizzato cittadino, dalla carne “paffutella” e morbida, che deve confidare esclusivamente in se stesso! Le cime montuose da valicare non sono particolarmente alte, ma molto estese (la più alta è il Clingmans Dome nel Tennessee, che raggiunge circa i 2200 metri, mentre almeno 350 arrivano a 1600 metri). Una cinquantina di esse si possono trovare innevate.
UNA POPOLAZIONE PARTICOLARE – Durante il XVIII secolo, i Monti Appalachi erano stati popolati da coloni provenienti dall’Inghilterra, dalle pianure scozzesi e dall’Irlanda settentrionale. Sino alla guerra civile americana (la Guerra di Secessione, 1861-1865), la regione degli Appalachi non era molto diversa per sviluppo sociale dalle altre aree rurali del Paese. In seguito, invece, quando nei territori americani nacque la spinta alla modernità nel segno del progresso, la zona appalachiana rimase ferma e fedele alle proprie tradizioni. La conseguenza fu che la sua comunità venisse catalogata come arretrata e non al passo con i tempi. Nel parlare comune, quei montanari dagli altri americani erano chiamati “hillbilly” (un termine dialettale di derivazione scozzese, per indicare una persona fondamentalmente asociale). Un esempio? Un articolo del quotidiano New York Journal del 1900 così descriveva all’inizio di quel secolo lo stereotipo di un hillbilly: “[…] un cittadino bianco che vive sulle colline, che non sa comunicare, che si veste come può, che parla senza-senso, che beve whiskey quando vuole e che spara un colpo di revolver quando meglio crede […]”.
Vi era, invece e comunque, chi vedeva nell’identità antropologica peculiare della regione appalachiana un ultimo campione della pura discendenza anglo-sassone, nel quale si rintracciavano le radici dei piccoli proprietari terrieri delle storiche 13 Colonie che - all’epoca della “Dichiarazione di Indipendenza” (1776) dall’Impero Britannico - costituirono la base per la nascita del futuro Stato federale americano.
LA “LORO” STORIA A FUMETTI – Proprio alla popolazione dei Monti Appalachi si ispirò il disegnatore statunitense Al Capp (Alfred G. Caplin, 1909-1979) che dal 1934 al 1977 pubblicò una serie umoristica di strisce giornaliere di fumetti (comics) su alcuni giornali americani. Ne era protagonista un tipico hillbilly (un personaggio immaginario di nome Li’l Abner, “Il piccolo Abner”), un giovanotto prestante e fanciullesco, di bell’aspetto, dal lungo ciuffo nero di capelli sulla fronte, ingenuo e poco colto.
Una curiosità finale: in questi fumetti i personaggi appalachiani si esprimevano (in inglese) con un forte linguaggio dialettale (“slang”), che nella edizione in lingua italiana - per renderne l’effetto – fu tradotto mirabilmente utilizzando un miscuglio di vari dialetti della nostra Italia settentrionale.
Il Guardiano del Faro